00 01/11/2006 22:18







La libertà di amare




Parte prima




Nella vita, soprattutto quando si è giovani, spesso si sogna l’arrivo di un principe.
Regola che vale per la maggior parte delle ragazze romantiche e piene di speranze.
Ebbene, nella mia vita qualcosa di simile è successo.
Benché non si trattasse di un vero principe, lo notai subito tra la folla e il mio cuore ebbe un sussulto.
In una serata di ricevimento, come tante altre, o meglio, per me parve simile a molte altre serate di festa,
nonostante si stesse festeggiando l’unione avvenuta da breve tempo tra il barone Kidoin con la mia matrigna,
curiosa di poter conoscere la nobiltà di tutto il mondo.
Quella serata dedicata a lei, fu un regalo di nozze da parte di mio padre.
Gli invitati vennero da ogni nazione, compresi americani, inglesi, tedeschi, scozzesi, indiani e italiani.
L’abito che indossai era uno dei migliori che avevo, adatto all’occorrenza, eppure il disagio interiore mi privò di provare serenità e l’ansia si fece maggiore, tanto sperai la serata terminasse al più presto.
Furono mio padre e la bella senegalese al suo fianco, i primi ad entrare nel salone principale.
Lei, una donna scura di pelle con occhi e capelli di un profondo nero, sfilò con indosso un abito dorato, semplicemente perfetto per risaltare la sua bellezza.
Appena apparse nel salone, tutte le damigelle presenti si incantarono a osservarla e furono molti i complimenti ricevuti per la sua straordinaria bellezza.
Con garbo e gentilezza, lusingata dai commenti, ringraziò gli invitati, per poi prendere posto nella poltrona di velluto affianco a mio padre.
Entrarono poi altri invitati stranieri, rispettosi nel porgere saluto prima di avvicinarsi ai coniugi, padroni di casa. Ed ecco, infine, giunse una carrozza proveniente dall’Italia. Su questa, viaggiava colui che mi avrebbe fatto provare strani sfarfallii allo stomaco.
Non che fosse uno degli invitati, bensì l’accompagnatore della famiglia italiana, invitata quella sera.
Appena fu possibile, scesero dalla carrozza due coppie. La prima, formata dal conte e dottore Villa con la moglie e, la seconda, formata dalla loro unica figlia assieme al semplice accompagnatore.
Non si può dire che fossero gli invitati di maggior importanza, considerando che mai prima di allora, risposero affermativamente a un invito né da parte di paesi esteri, né da parte di nobili del proprio paese.
Una famiglia modesta, abituata alla loro modesta villa di campagna nel sud della nazione italiana, ma la loro umiltà non li emarginava dal resto del mondo, poiché dotati di grande umanità e bontà.
Abiti semplici, poco sgargianti, privi di sfarzosi gioielli e poche rifiniture di pizzi e merletti, eppur la loro eleganza fu appariscente, forse più di tanti altri, belli nell’estetica, ma privi di gusto da parte dei proprietari.
Purtroppo l’apparenza si impose nella mentalità molto più di quanto si pensi e la maggior parte dei pregiudizi
crebbero a causa di questo insulso ragionamento.
Anche fossi stato di nobile casata, o il Re in persona, l’abito parlava di te e se non era appropriato, a breve potevi essere sulla bocca di tutti, giudicato come persona non considerevole.
Questo però non intimorì la coppia di italiani che risultò sentirsi quasi a proprio agio, seppur in mezzo a gente con abiti sgargianti e pomposi.
Pensai, osservandoli, che se anche io fossi nata nella loro famiglia, mi sarei sentita ugualmente felice e avrei camminato a testa alta. In effetti, di persone umili si era sempre a corto tra i nobili giapponesi come noi.
E tra loro vidi lui, un giovane dai bellissimi lineamenti, nascosti da basette sottili che contornavano il volto, congiungendosi alla barba appena accennata sotto il mento, visibile anche tra naso e bocca.
Occhi grandi e profondi, neri come petrolio, sopracciglia folte e scure, capelli corvini tenuti sciolti, che arrivavano ondulati a sfiorare le spalle, viso nobile e allungato, leggermente scarno e dalla pelle bianco latte.
Robusto nel modo più assoluto, inoltre apparve poco alto, eppure qualcosa di affascinante in lui mi attirò.
Non essendo mai stata amante di feste e ricevimenti, dove il contatto con gli altri invitati era quasi d’obbligo,
uscii in quell’attimo dalla grande villa adornata a festa, per poter prendere una boccata d’aria.
Il freddo punse le parti scoperte del mio corpo. Dentro me sapevo che non era giusto evitare quella festa, poiché l’occasione era davvero di grande importanza per mio padre.
Un tuffo al cuore mi assalì nel vedere quel ragazzo, e mi tornò alla mente che quella festa mi sarebbe dovuta servire per trovare un buon partito e convolare presto a nozze.
Convintosi che la mia età ormai stesse avanzando troppo velocemente e io stessi sprecando tempo, non mi sarebbe più stato possibile dormire sugli allori e vivere le mie giornate da sola. A volte captò che mi rinfacciasse di giocare ancora con le bambole. Il suo timore profondo lo portò a convincersi che mi stessi comportando ancora come una bambina, viziata e ipocrita. Ma lui non provò mai nemmeno a parlare con me, dopo la morte di mia madre. Non riuscimmo ad avere un rapporto più stretto, un rapporto solidale.
Così crebbi nella certezza che un giorno mi sarei trovata inevitabilmente sola.
Fino all’arrivo di mio fratello.
E ora, fino all’arrivo di quel ragazzo, giunto da un lontano paese, di nobile aspetto, nonostante non avesse nessun titolo nobiliare che lo potesse contraddistinguere.
Scese dalla carrozza vestito di un semplice eppur elegante abito azzurro, tenendo per mano una giovane dama dall’aspetto incantevole, vestita di un abito color arancione pallido, pieno di ricami e decori, nonostante la particolare semplicità della stoffa.
Una famiglia proprio di un altro mondo, con un gusto impeccabile nella scelta degli abiti, semplici ma ottimamente lavorati e rifiniti.
Guardai la giovane donna e il suo cavaliere camminare a passo sicuro verso la grande casata e, di lì a poco, scomparvero dietro l’enorme volta del portone. Nonostante la visione durò pochi istanti, non riuscii a muovermi tanta fu l’emozione che provai mentre il cuore parve impazzire nel petto.
Sentii male al petto, ma gioii poiché mi sembrò di essere tornata a vivere miracolosamente, dieci anni dopo la scomparsa di mia madre, la baronessa.
Tornai a provare emozioni, benché questa volta fu alquanto piacevole.
Ricordai il dolore al petto, lo stesso provato quando appresi della notizia della nascita di mio fratello, che causò però la morte di nostra madre. Il dolore che provai durò pochi istanti, poiché il bambino appena nato mi fu lasciato tra le braccia, nudo, sporco, avvolto in un lenzuolo, urlante.
Almeno però si capì godere di ottima salute.
Dopo mia madre, ci fu un’altra donna nella vita di mio padre, che fece da madre a mio fratello e agli altri due figli maschi nati dalla loro unione. Poi, un giorno come tanti, venne a galla una tremenda realtà. La seconda moglie del barone fu accusata di adulterio e per questo cacciata dalla nostra dimora.
Si scoprì che la donna, piena di dolore, si tolse la vita, dopo aver scritto una lunga lettera in cui dichiarò la sua innocenza e il suo amore profondo per mio padre. Ma non essere creduta dall’uomo della sua vita, la fece sentire inutile e la depressione tremenda la portò al suicidio.
Il barone conobbe poi Tahina, colei che diventò la terza moglie e per cui diede il ricevimento in cui la mia vita cambiò radicalmente in poche ore.

- Virginia, eravate qui!
- Mota! – dissi, quando mi voltai e vidi quel bambino di dieci anni privo di affetto materno, che mi venne incontro. Lui, l’unico fratello di sangue.
- Cosa ci fate fuori in questo momento? Gli ospiti sono al completo ormai e il barone richiede la vostra presenza al suo fianco.
- Sì, Mota, lo so. Stavo solo prendendo un poco d’aria fresca. Mi mancava il respiro dentro, in mezzo a tutte quelle persone.
- Capisco. Vi sentite a disagio. Siamo uguali, infondo, io e voi.
Mota, un bambino introverso, privo di sorriso, intelligente e troppo maturato per la sua età. Di una bellezza rara, con dolci tratti del viso e due occhi profondi, color nocciola. Esile di corporatura eppur sano.
Da poco aveva imparato a cavalcare e ormai si esercitava nell’arte della katana, una spada simbolo di forza e orgoglio per l’intero Giappone. Nello studio eccelleva, arrivando a studiare un programma che a me fu affidato a soli sedici anni e feci comunque fatica. Era il tesoro più grande che avessi.
- Scusate sorella, non vorrei sembrarvi inopportuno, eppur la domanda nasce spontanea. Quali sono le intenzioni vostre questa sera?
- Riguardo a cosa? - domandai basita.
Mota era tutt’altro che socievole e mai si interessava agli altri. Da quando venne alla luce, fu lasciato totalmente alle cure della balia, che gli fece da madre, più che tutto il resto.
Solo durante il fine settimana mio padre si univa a noi, durante i pasti, così da poter stare tutti assieme, oppure quando avevamo ospiti di riguardo.
Mio fratello lo conoscevamo tutti pochissimo e mai ci eravamo scambiati un sorriso o una dolce parola di conforto, come tra fratello e sorella parrebbe normale.
Quante volte avrei voluto chiamarlo anche solo fratellino! Ma poi, guardandolo negli occhi, scrutando la profondità del suo sguardo, mi faceva sentire insicura e, temendo non fosse adatto a lui, rinunciavo all’idea.
Questo il motivo per cui entrambi ci sentivamo distanti.
- Non siete obbligata a darmi una risposta se non gradite.
- Ma… Mota, non posso certo rispondere a una domanda di cui non comprendo il significato.
Si voltò verso di me e mi fissò per un istante, così abbassò la testa un istante e aggiunse :
- Perdonatemi, sono stato importuno! L’intenzione mia era capire se avete intenzione di lasciare la villa ora che il barone ha trovato una nuova consorte.
- Ma no! Non voglio lasciare questa casa. Perché dovrei?
- Non chiedetelo a me. E’ il barone che insiste nel trovarvi un buon partito per convolare a nozze.
- Capisco. Bene, il barone può dire ciò che vuole, ma solo a me spetta scegliere e devo prima essere sicura di cosa voglio per me. Non ti pare?
- Temo sia proprio questo a preoccuparmi.
- Come? Preoccuparti? Ma perché?
- Per il fatto che siete mia sorella, suppongo.
Rispose con una freddezza agghiacciante, ma cercai di non farci caso, poiché abituata ai suoi modi schivi.
- Caro, cosa ti preoccupa? – chiesi con dolce tono.
- Ebbene, la mia preoccupazione è limitata, poiché non sono certo accadrà. Se non sarete voi, però, credo sarà il barone padre a scegliere per voi l’adeguato futuro consorte.
- Credi davvero? – chiesi, cominciando a preoccuparmi seriamente.
- Questo è il mio pensiero, Virginia.
- Se dovesse arrivare a questo, proverò a dissuaderlo, a fargli capire che per me è importante mantenere ancora la mia indipendenza.
- Allor spero vi darà ascolto. – rispose il giovane uomo, non propriamente convinto.
- Mota…
- Ditemi.
- Come ti è venuto alla mente tal pensiero? E come mai hai pensato di riferirmelo?
Nessuna risposta udii da parte sua e mi convinsi che mai me ne avrebbe data una. Così, senza attendere oltre, dissi con tranquillità :
- Ora credo sia meglio tornare dentro.
- V’appoggio – disse, con consenso, eppur incupendosi.
Non parlammo più, nonostante camminassimo vicini, fino al raggiungimento del salone principale, dove si dileguò tra la folla e lo persi di vista.
Rimasi sulla soglia dell’ingresso al salone, incapace a farmi avanti, piena di ansietà nel trovarmi immersa tra tutta la gente presente.
Intanto, mi passò accanto la damigella proveniente dall’Italia e, osservandola da vicino, notai meglio i suoi bellissimi boccoli ramati, lavorati per l’occasione, che ben si intonavano all’abito, assieme alle guance rosee e gli occhi cristallini. Parve fatta di ceramica, così bella e delicata.
Avanzò leggera, accostandosi di più a me, fermandosi però a conversare con altri invitati di origine inglese, comunicando con loro in modo perfetto.
Una figura maschile invece si accostò accanto a me, con un bicchiere di vino bianco in mano. Mi voltai e il cuore mi rimbalzò nel petto, sgranando gli occhi senza rendermi conto, nel riconoscere in lui l’accompagnatore italiano. Lui si voltò verso di me e arrossì nel vedere l’espressione stupita e incredula.
- Salve – disse sommessamente, abbozzando un timido sorriso.
Colta alla sprovvista per il saluto, non ricambiai a voce, bensì con un cenno del capo, prima di scomparire dalla sua vista, diretta al balcone a lato del salone.

- Tesoro, cos’è accaduto? Pare siate in pena!
Mi voltai all’istante nell’udire la voce provenire alle mie spalle e vidi mio padre venirmi incontro.
- Padre. No, non temete, non v’è nulla di strano in me, credetemi.
- Eppure anche a tua madre è parso fossi agitata. E’ a causa di questa festa forse?
- Oh, no, padre! Cosa dite? – domandai, dispiaciuta che entrambi se ne fossero accorti.
- Virginia, cara, se proprio non riuscirai a intrattenerti a lungo alla festa, non sarai motivo di biasimo, non temere e potrai tornare nelle tue stanze quando vorrai.
- Padre, vi ringrazio, ma sono certa non vi sarà bisogno.
- Bene, quand’è così, non insisterò oltre. Vieni con me ora, è mio desiderio presentarti alcuni ospiti con cui hai probabilmente molte cose in comune.
Senza fiatare, sorridendo garbata, presi a braccetto il barone, con innata eleganza e rientrai nella grande sala al suo fianco. Il passo ci condusse sino al centro della stanza, dove ci arrestammo dinanzi a due giovani di bell’aspetto, provenienti dalla Grecia del nord. Mio padre fece le presentazioni e mi confidò poi, avvicinatosi al mio orecchio, che avrei potuto scegliere tra uno di loro, il cavaliere adatto per la festa.
Avevano rispettivamente ventiquattro e ventisei anni. Erano ospiti speciali, giunti apposta per conoscermi.
- Padre, vi ringrazio, ma non sono certa di voler… - non riuscii a terminare la frase che ci avvicinammo a un altro gruppo di stranieri. Una famiglia di americani, composta dal visconte, la consorte, il primogenito appena ventenne, la seconda figlia di quindici e il più piccolo di otto anni.
Subito il ragazzo si inchinò nel presentarsi. Lo trovai attraente e molto elegante, coinvolgente anche nelle conversazioni di intrattenimento, ma apparve troppo intellettuale e posato, per questo mi venne presto a noia la sola sua compagnia. Dunque mi scusai e mi diressi al tavolo delle bevande, senza toccarne nessuna.
Il barone, notando il mio comportamento da non lontano, si avvicinò e chiese :
- Mia speranza questa sera è che tutto possa procedere per il verso giusto. Per te procede altrettanto?
- Sì, certo, padre. Scusatemi per aver preso le distanze da quel giovane, ma ho avuto l’impressione di annoiarmi poco a poco. Kevin Stewart è affascinante e pieno di conversazioni intellettuali e profonde, eppure qualcosa in lui non mi attira. Forse la troppa serietà che impone al prossimo.
- Comprendo bene, tesoro. Sono al corrente del tuo desiderio. Preferisci parlare con persone che hanno vissuto molte avventure e piene di progetti di grande impegno su cui parlare. Dico bene?
- Padre, non vi starete burlando di me? – chiesi sommessamente, con lieve rossore in volto.
Egli sorrise e mi venne spontaneo fargli notare :
- Non pretendo molto se chiedo di divertirmi dato che mi trovo a una festa. Vi pare? Non conoscete proprio nessuno che possa suscitare maggiore interesse?
- Ma certo, cara. Per te qualunque cosa. – rispose con un ghigno malizioso e ancora una volta lo presi a braccetto, avanzando elegantemente al suo fianco.
Ci avvicinammo alla tavolata delle pietanze e mi presentò al conte e dottore Villa e consorte.
Mi stupii di poterli finalmente conoscere come si conviene e sentii le gote accendersi nel proferire loro il mio saluto di accoglienza, presentandomi. Finalmente mi trovai innanzi a coloro per cui provai grande ammirazione, più di altri ospiti invitati alla festa.
- Avete una figlia veramente graziosa, barone Kidoin. E’ possibile conoscerne l’età? – domandò la contessa.
- Vi sono grato per la generosità dei complimenti contessa. Virginia potrà godere di diciannove anni questa primavera. – rispose fiero mio padre.
- Pare proprio un angelo. – aggiunse il conte.
- Vi ringrazio, mi sento lusingata. – risposi con garbo ai loro apprezzamenti.
- Se non sono indiscreta, da dove nasce il nome che porta? Virginia. Delicato e grazioso, ma che molto si allontana dal classico nome orientale. Ha un significato preciso? – chiese la contessa, molto colpita dalla scelta compiuta dalla mia defunta madre.
- Fu la mia prima moglie a deciderne il nome. Mima, la madre di Virginia e di Mota, i miei primi due figli, aveva una passione particolare per i nomi stranieri, soprattutto se riguardavano città di paesi esteri. Inizialmente, si era scelto di chiamarla Roma, come la grande capitale italiana, ma durante la gravidanza, Mima si era appassionata alla lettura, in particolare a un romanzo in cui la protagonista si chiamava Virginia e questo nome affascinò talmente mia moglie che decise per quest’ultimo.
- Doveva essere una donna alquanto eccezionale. – commentò la contessa, nel sentire il racconto.
- Era umile e generosa, molto garbata e di grande bontà. Amava le cose semplici e di valore affettivo più che materiale. Mi hanno sempre raccontato di lei che era molto bella, ma anche piuttosto ingenua. Io l’ho conosciuta poco, ma voi me la ricordate molto, contessa. – mi permisi di apostrofare.
Il conte e la consorte rimasero sbalorditi per via delle mie parole. Mio padre sorrise compiaciuto e si allontanò augurando agli ospiti un’incantevole serata, lasciandomi in loro compagnia.
- Che ragazza dolce sei, Virginia. Le tue parole hanno toccato il mio cuore. – mi confidò la contessa Villa.
- E’ vero cara. Questa giovane e deliziosa signorina è proprio cortese e garbata. Inoltre, trovo sia dotata di grande bontà d’animo. – aggiunse il conte. – Di certo avrà preso queste ottime qualità dalla madre. Sicuramente la bellezza. – disse, osservandomi con ammirazione. – Ma forse gradisce le si dia del voi.
- Non dovete viziarmi di complimenti, mi lusingate. Vi ringrazio. – arrossii ancora. – Però non fatevi scrupoli e datemi del tu per cortesia. Infondo potrei essere figlia vostra.
Sorrisi loro, mentre si avvicinò a noi la bellissima dama dai capelli ramati, figlia dei conti Villa. Senza problemi, si presentò apertamente, priva di esitazione.
- A voi buonasera, signorina. Lieta nel fare la conoscenza vostra. Sono Felicita Villa, unica figlia dei conti Villa. – disse, parlando un giapponese corretto e pulito.
- A voi buonasera, contessina Felicita. E’ una gioia avervi qui questa sera. Il mio nome è Virginia, figlia del barone Kidoin. – risposi, parlandole in italiano e lei si sorprese.
- Noto con piacere che siete ben istruita. Avete inoltre risposto con garbo e gentilezza, in una diversa lingua difficile da imparare. Quante altre lingue sapete? – mi chiese Felicita.
- Conosco l’inglese, lo spagnolo, il tedesco, il greco, il polacco e la lingua indiana.
- Davvero complimenti, milady. Non conosco nessuno così ben istruito come voi. Conoscete anche il francese? E quante tra quelle menzionate sapete parlare correttamente?
- Il francese è una seconda lingua per me. Perdonate se non l’ho menzionata, ma la parlo meglio di ogni altra. Quelle su cui fatico maggiormente sono il polacco e il tedesco. La lingua indiana la sto imparando grazie alla seconda moglie di mio padre, che la conosce nei minimi dettagli.
Sorrise compiaciuta e cominciammo così a dialogare cambiando spesso lingua a ogni discorso.
La trovai simpatica e divertente, nonché matura, ma non poteva essere altrimenti, considerato che mi confidò di avere ormai raggiunto i ventotto anni. Appresi che insegnava le lingue straniere in una scuola pubblica a ragazzi dagli undici ai sedici anni, oltre alla matematica e la storia. Mi sorprese e la mia ammirazione per lei crebbe maggiormente, grazie anche al fatto che appariva bella e dinamica.
- Ora che vi ho conosciuta, la festa mi pare meno noiosa. – rivelò con mia grande sorpresa.
- Dite davvero? Questo pensiero è lo stesso mio.
- Anche voi considerate noiose queste feste?
- In effetti sì. Nonostante oggi non dovrei considerare la festa una noia, viste le circostanze. Mio padre vorrebbe che fossi felice nel giorno per lui più importante.
- Posso immaginare. Siete contenta che vostro padre abbia trovato una moglie?
- Non saprei cosa dire. Non lo trovo sbagliato. Penso che se lui è felice, null’altro ha importanza e tale cosa non è di mia competenza. Anche se in cuor mio vive la speranza che si tratti dell’ultima cerimonia di nozze, questa. Ne sarei sollevata.
- Vi comprendo. – disse con delizioso sorriso. – Anche io me ne verrei a stancare dopo un po’.
- Siete gentile. Ma ditemi, la contessa Villa è vostra madre naturale o una matrigna?
- Oh, no! – rise – Grazie al cielo mio padre può sentirsi ancora orgoglioso di avere accanto mia madre, una donna come poche ne esistono al mondo. Forse l’unica che riesca a trovare un punto d’incontro con un testardo come lui. Credo infatti che se mia madre dovesse venire mai a mancare, lui non avrebbe il coraggio di risposarsi, nonostante il loro matrimonio è stato combinato. Sono ugualmente riusciti a innamorarsi reciprocamente l’uno dell’altra. Come sia stato possibile, non lo so.
- Ma ciò è davvero bello! – risposi con sguardo sognante.
- Anche io ne convengo. Devi sapere che a me hanno lasciato la libertà di scegliere da sola con chi desidero unirmi in matrimonio. Tanto che si stavano cominciando a preoccupare, perché non volevo saperne di nessuno fino allo scorso autunno. Ma alla fine…ho incontrato lui… - il suo sguardo vagò per la sala, sino a dirigersi verso la porta d’ingresso della stanza.
Senza rendermene conto, anch’io vagai alla ricerca della figura indicata e notai sulla soglia la stessa persona che aveva accompagnato la famiglia Villa alla festa e che mi sorrise nel vedere la mi espressione stupefatta quando ci incontrammo restando in piedi entrambi sulla porta a fissare l’interno del salone.
Il cuore prese a vivere con frenesia nel petto e cercai di farmi coraggio, per domandare a Felicita :
- Scusate, voi conoscete il ragazzo fermo sulla soglia della porta d’ingresso al salone?
- Intendete dire quello vestito di azzurro, con il bicchiere in mano, che osserva attorno spaesato?
- Esatto, proprio lui. Lo conoscete?
- Oh, certo. Lo conosco bene. E’ il mio cavaliere questa sera. Ha accettato, pur sapendo che, non essendo nobile di nascita, non ha il permesso a entrare nel salone per partecipare alle danze.
- Non capisco. Non può partecipare, pur essendo assieme a voi conti?
- Purtroppo l’invito era rivolto ai soli familiari e siamo solo tre in famiglia. Per questo avrei voluto rinunciare, invero. Non me la sentivo a partire per terre lontane e lasciare lui solo in Italia. Da sola a queste feste non mi diverto mai.
- Comprendo.
- Oh, no, scusatemi! Non era mia intenzione rivelare tale atteggiamento di superbia. L’unico mio pensiero è che le feste e i ricevimenti proprio non fanno al caso mio. Avvengono sempre delle arroganze tra nobili inferiori e nobili di alto livello. Solitamente rifiuto per questo motivo.
- Perché vi preoccupate? Sono ben consapevole di cosa volete dire. Ciò che dite è anche pensiero mio. Non dovete scusarvi.
- Vi ringrazio, Virginia.
- Oh, niente. Ma avete detto che il vostro cavaliere si è offerto ugualmente ad accompagnarvi a questo ricevimento pur sapendo che non avrebbe potuto presenziare personalmente?
- Esatto. Proprio per questo ora mi rincresce vederlo così spaesato e annoiato, appoggiato a una parete.
- Sì, dispiace anche a me. Posso fare qualcosa per voi?
- Purtroppo temo non ci sia nulla che si possa fare. Il regolamento parla chiaro. Solo chi invitato può partecipare a una festa nobile.
- Questo è vero, ma talvolta le regole si possono cambiare. Non credete? Si possono fare eccezioni.
- Non comprendo cosa abbiate in mente.
- Spero vi vorrete fidare di me. Tornerò al più presto.
Sorrisi e mi congedai, inoltrandomi tra la folla per raggiungere il barone, seduto al fianco delle consorte.


...Continua...


[Modificato da =Ereandil= 09/11/2006 14.30]