Stella di Fleed, anno XXX
Le foto scorrevano veloci tra le sue mani. Lacrime di commozione e gioia sgorgavano inarrestabili nel rivedere le scene di quei valorosi eroi,
tra battaglie e momenti intimi. I suoi genitori, cosi’ giovani. Quell’uomo, che era la sua copia identica. Suo padre, che aveva liberato la Terra dai malvagi invasori di Vega.
E che aveva poi sposato quella stupenda donna a cui aveva donato parte del suo stesso sangue: Venusia, ribattezata dai Fleediani ‘Regina delle melodie’ poiché non accettava altri nomi se non il proprio.
Quanti momenti di tenerezza. Ma anche di duri insegnamenti e ferrea disciplina. Il giovane non si dava pace. La tristezza dei ricordi gli annebbiava la mente e la vista. Un destino crudele gli aveva portato via i suoi amati genitori. Troppo, troppo presto. La ruota della vita aveva girato all’ incontrario. Nulla avevano potuto la scienza e la medicina delle migliori menti di Fleed. L’entropia “ makuder” aveva distrutto le loro cellule, consumandoli a poco a poco, fino a trascinarli oltre l'ultima soglia.
Ora, una nuova minaccia incombeva sulla Terra, pianeta gemello di Fleed: I Tarmilas, una sconosciuta razza aliena, che aveva lasciato testimonianze della propria esistenza ancor prima della comparsa dell’umanità. Avevano lasciato i segni della loro presenza a Stonehenge, in Perù, sull’Isola di Pasqua, e in molte altre località. In tempi recenti avevano tracciato vistosissimi cerchi nei campi di grano, danneggiando gravemente le colture. Erano in possesso di tecnologie avanzatissime, e stavano distruggendo tutto. Radevano al suolo villaggi, città, intere nazioni. Le grandi super potenze erano completamente inermi contro di loro.
Uccidevano senza pietà e senza distinzione di sesso o di età. Donne, vecchi, bambini cadevano come frutta troppo matura sotto i loro colpi. Essi ritenevano l’umanità indegna di esistere: organismi nocivi che avrebbero potuto mettere in pericolo l’esistenza dell’intero universo. Agli albori della nostra civiltà, noi umani li chiamavamo ‘dei’, mentre ora si rivelavano essere null’altro che dei demoni spietati ed assetati di sangue.
Phemeryon era consapevole d’essere ‘l’erede’, il prescelto, colui su cui gravava la responsabilità di riportare la pace in quell’angolo di cosmo. Ma ancora non si sentiva pronto per quel compito. I nemici erano di gran lunga superiori, sia tecnicamente che numericamente. E poi, come avrebbe potuto combattere ? Quali mezzi aveva, per contrastarli? Qualsiasi arma era ormai scomparsa dalla città imperiale. La popolazione di Fleed aveva vissuto troppo a lungo nella pace.
Phemeryon si sdraiò sul suo letto, ed in pochi minuti si addormentò. Fece un sogno. Davanti a lui, il padre, l’unico,inimitabile Actarus si ergeva imponente, in tutta la sua bellezza e maestosità. Actarus tese la mano al figlio, invitandolo ad alzarsi. Poi, pronunciò queste parole: ‘Figlio mio, non perdere altro tempo. Il sangue e le anime degli innocenti morti sulla Terra, invocano aiuto per i loro cari. Non avere paura. In te scorre il mio sangue. Sei il principe di Fleed. Tuo è il sacro Goldrake. Trasforma le lacrime in sorrisi. Il futuro appartiene a te e a tutti i valorosi giovani che decideranno di lottare con te. E ricordati che io e tua madre saremo sempre con te, perché viviamo dentro di te. Ora và, Phemeryon, figlio mio. ”
Phemeryon si svegliò di soprassalto, scattò in piedi, i pugni serrati. “Non posso più restare qui, inerte. La Terra ha bisogno di Goldrake. E ne ha bisogno ora.”
Senza ulteriori indugi, il giovane uscì dalla sua stanza, monto in sella ad un veicolo che sembrava una motocicletta a cuscino d’aria, e si diresse verso una collina poco distante dalla città chiamata ‘montagna del drago’. Era particolare, perché sembrava nascere da un lago. In mezzo alla montagna scorreva un fiume, che dalla cima della montagna riversava la sua acqua direttamente nel lago, formando una bellissima cascata. Quella cascata era conosciuta come la ‘cascata del drago dorato’. Antiche leggende fleediane, infatti, narravano che in quella cascata albergasse un misterioso dio delle acque, che assumeva le sembianze di uno stupendo drago dorato quando si manifestava agli uomini.
Phemeryon, abbandonata la moto, si arrampicò fino a raggiungere la cima della montagna, esattamente dove il fiume cominciava la sua folle caduta verso il lago. Era consapevole che quella era una prova. Una prova che tutti i principi di Fleed, prima di lui, avevano dovuto affrontare. L’aveva affrontata suo padre, e prima ancora suo nonno, e il nonno di suo nonno.
Il giovane guardò in basso. Un senso di vertigine parve impadronirsi di lui. Strinse i denti. ‘Non devo avere paura. La paura uccide la mente’ pensò. Poi, con un poderoso slancio, si curvò in avanti, e si lanciò nel vuoto, la testa rivolta verso il lago sottostante. Da quell’altezza, l’acqua era come cemento. Il momento dell’impatto sarebbe stato l’ultimo. Poi fu un istante. Phemeryon aprì la bocca, e urlò con quanto fiato gli era rimasto gridò: ‘G O L D R E I I I K’. Il corpo del giovane fu avvolto da una tuta rosso fiammeggiante e nera. Una luce accecante si sprigionò dalla cascata, circondò il giovane e lo avvolse completamente. Phemeryon chiuse gli occhi. La sua vista non poteva di certo reggere un simile bagliore. Quando riaprì gli occhi, si rese conto che era vivo, e che non stava nuotando nel lago sottostante. Era seduto all’interno di una cabina di comando, su una specie di seggiolino che assomigliava ad uno scooter. Si guardò rapidamente intorno. Centinaia di leve e pulsanti spuntavano dalle varie consolle poste all’interno della cabina. ‘Cosa devo fare, ora?’ si chiese. Poi, un lampo, un intuizione. Phemeryon afferrò le leve situate sui braccioli del sedile su cui era adagiato. Le tirò a se con forza e gridò: ‘Goldrake, avanti!’
La montagna del drago si squarciò in due, e poi crollò su se stessa. Da essa ne emerse un gigante d’acciaio, dal corpo nero e rosso, e dalle quattro corna dorate che ne ornavano la testa. Era Goldrake, la divinità protettrice di Fleed, il poderoso robot che era appartenuto a suo padre Actarus e che ora apparteneva a lui. Poi, senza alcun preavviso, il vulcano Tyser eruttò. Dopo decine di anni in cui era stato un vulcano spento. Una tremenda fenditura si aprì nel terreno. Magma e lapilli fuoriuscirono dal vulcano. Una forma sferica, ancora rossa per il calore del magma, cominciò a levarsi da sottoterra. Lo Spacer, la navicella spaziale di Goldrake. Ora Phemeryon sapeva esattamente cosa fare. Tirò alcune leve sulla consolle alla sua destra. Il robot cominciò a muoversi, dapprima piano e con lenti passi. Poi, mano a mano che avanzava, il colosso prese velocità, ed infine effettuò un poderoso balzo. Phemeryon premette un altro pulsante, a cui seguì un altro comando vocale: “AGGANCIAMENTO”. I retro razzi del disco si spostarono lateralmente, rivelando che il veicolo era completamente cavo, del tutto adatto per alloggiare il robot. Il colosso, eseguendo una perfetta manovra acrobatica, si infilò nell’alloggiamento. Ora, il gigante meccanico e la sua navicella erano una cosa sola.
Phemeryon impostò le coordinate per la Terra, come se le avesse sempre sapute a memoria. In realtà non aveva mai neanche saputo ne immaginato cosa voleva dire navigare nello spazio. Tirò un’altra sequenza di leve. Dallo schienale del sedile spuntarono due cinture metalliche che si posizionarono all’altezza del suo torace. Tirò un’altra leva, urlò un nuovo comando: “ VELOCITA’ SUBFOTONICA!”
In pochi secondi, Goldrake scomparve completamente dai cieli di Fleed, mentre una scia luminosa procedeva nello spazio con un’unica destinazione: Terra.
Un puntino luminoso percorreva veloce la volta celeste. Un bambino, notandolo nel cielo buio della notte, si rivolse a sua madre: “Mamma guarda una stella cadente. Lo sai che se esprimi un desiderio quando cade una stella, il desiderio si avvera?” La donna accarezzò dolcemente il bambino. Le lacrime rigavano il suo volto smunto, provato dalla fame e dagli stenti.” Se fosse vero, vorrei che la guerra finisse e che tornasse , la pace e l’amore. Oh, piccolo mio, già troppe volte l’ho pensato. Ma ormai credo siano soltanto speranze vane.” La donna fece una pausa, rendendosi conto dello sguardo angosciato del suo bimbo. Fece appello a tutte le sue forze per scacciare la tristezza e la disillusione. Guardò di nuovo il bimbo, sforzandosi di sorridere e di essere convincente.
”Sai, quando avevo la tua età, la Terra venne attaccata dagli extraterrestri di Vega. Ma un grande eroe, intrepido e coraggioso, difese l’umanita’ a bordo di un gigantesco e poderoso robot. Mi sembra di ricordare che il robot si chiamasse GOLDJACK, e quell’eroe….come si chiamava quell’eroe cosi generoso? Icarus? Si, mi sembra che fosse Icarus, ma non ne sono sicura. I ricordi sono molto vaghi. La donna guardò al cielo, e al puntino luminoso che ancora fendeva il buio di quel cielo oscuro ‘Chissà dov’è adesso….’ La donna non fece nemmeno in tempo a pronunciare quelle parole che un sibilo assordante ruppe il silenzio dell’aria. Un missile vagante cadde proprio nel punto in cui si trovava la donna con il suo piccolo, ed esplose, lasciando soltanto macerie fumanti.