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L'amore in sogno - short Japan Story

Ultimo Aggiornamento: 05/11/2006 10:38
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05/11/2006 09:22








L'amore in sogno



Parte prima



Mi ero appena trasferito a Nagano, da Sapporo.
In questa nuova città abbandonai in modo radicale il passato. Da programmatore elettronico, divenni un autista di pullman per servizio scolastico del paese. Da un lato mi sentivo felice, vedere ogni giorno quei bambini che facevano tanto chiasso già alle otto del mattino mi metteva allegria. A volte esageravano e bisognava riprenderli, anche se poco capivano quello che gli dicevo, con il mio accento diverso dal loro.
Forse per paura quindi, si mettevano zitti e composti, lanciandosi ogni tanto delle occhiate furtive tra loro, per capire se ero arrabbiato con loro o se avevo solo domandato qualcosa.
Dentro di me sorridevo per la loro ingenuità così delicata e per la loro purezza.
Molte volte, rimpiangevo di non essere più bambino, ma lavorare in mezzo a loro, mi faceva tornare il sorriso, quando capitavano dei momenti bui nella vita privata.
Un giorno ero teso e assorto nei miei pensieri. Lavoravo nella nuova città già da sei mesi. Da due, avevo preso a frequentare Kanae, dolcissima commessa del supermarket vicino alla stazione. Andavo spesso a fare compere al suo negozio, perché mi era comodo. Ormai di vista la conoscevo da tempo, ma solo dopo un’intera estate passata a salutarla, trovai il coraggio di intrattenermi un po’ per parlarle e invitarla una sera a cena.
Così, iniziai a coltivare questa storia piena di difficoltà, per via del difficile carattere di lei, troppe volte esigente e capricciosa. Mi faceva letteralmente impazzire. Stavo pensando a lei, al nostro ennesimo litigio la sera prima, quando sul pullman salì un bambina molto carina, dai grandi occhioni color nocciola e i delicati lineamenti.
Non mi pareva di averla mai vista, ma lei mi osservava incuriosita, con sguardo vago, accostata al posto di guida.
Senza timore, le concessi un sorriso.
- Lo sai vero che è pericolo stare qui vicino al posto di guida? – domandai, premuroso come un padre.
- Si lo so signore, scusami. – disse, sorridendomi con serenità.
Pensai che volesse dirmi qualcos’altro, ma capii di essermi sbagliato, quando la vidi andare a sedersi.
Dopo quel giorno, la ritrovai moltissime altre volte prendere il pullman che guidavo, diretta a scuola.
Alcune volte era in compagnia di un’amichetta graziosa, non quanto lei. Il più delle volte invece era sola e i suoi occhioni dolci erano sempre fissi su di me, mentre guidavo.
Finalmente un giorno si ripresentò occasione e ne approfittai per togliermi diverse curiosità.
- Ciao, signore! – disse lei, salendo sul pullman una mattina come altre.
- Ciao. – le sorrisi con garbo.
- Possiamo presentarci? – mi chiese con serietà.
- Certo. – le dissi tra il serio e il divertito, sembrandomi troppo piccola per le formalità.
- Io sono Aiko, ma molti mi chiamano Ai-chan. Puoi chiamarmi anche tu così, mi farebbe piacere.
- Lieto di conoscerti, allora, Ai-chan. Il mio nome è Akio. – risposi molto cordialmente.
- Akio è un nome bellissimo, signore, complimenti! – mi guardò con occhi sognanti.
- Ti ringrazio. Puoi chiamarmi solo Akio. Signore mi sa un po’ troppo di vecchio. – dissi sorridendole.
- Ah, davvero posso? Che bello Akio!
Il tono della sua voce era allegro e gioioso. Ma in lei c’era qualcosa di diverso dagli altri bambini della sua età, nonostante ancora non ero al corrente di quanti anni avesse.
Dopo quel giorno, mi salutò tutte le mattine chiamandomi per nome. E io mi comportavo altrettanto con lei.
Infine, un giorno, al termine delle lezioni scolastiche, la vidi salire nuovamente sul pullman.
Si avvicinò a me dapprima ammutolita e con lo sguardo basso, poi si fece coraggio e si rivelò.
- Akio, scusa se ti disturbo mentre lavori.
- Ma no, Ai-chan, dimmi pure. – cercai di confortarla, pensando non si trattasse di nulla di serio. Forse una lite con le amiche, di quelle solite, molto frequenti tra ragazzine.
- Vedi, devi sapere che è da quando prendo questo pullman che desidero parlarti.
- Certo. Infatti stiamo parlando. – sorrisi, senza capire cosa intendesse dire.
- Si, ma ancora tu non sai… - il suo sguardo era rivolto a terra, mogio.
- Cosa ti è successo? – chiesi alla fine. – Hai litigato con qualche amica?
- No. – rispose soltanto, con lo sguardo ancora fisso al suolo.
- Allora, non hai litigato con le amiche. Bene. – le feci capire che ero sollevato, ma non risultò cambiare espressione. Tentai in un altro modo. – Si tratta della scuola? O della famiglia?
- No. Si tratta solo di me. – ora cominciò a fissarmi.
- Dimmi. Posso aiutarti? – chiesi, ormai arreso al suo turbamento.
- Se ti innamori di me, sì. – disse semplicemente, ma con sguardo serio.
- Come? – domandai, guardandola negli occhi, così limpidi, grandi e sinceri. Così puri.
Capii che si era innamorata di me, ed era solo una bambina. Le chiesi dunque la sua età e rispose di avere dieci anni.
Io ne avevo molti di più, ventiquattro. E lei si era invaghita proprio di me, con tutti i ragazzini carini che di certo aveva a scuola e più adatti alla sua età. Rimasi sbalordito, senza parole. Le spiegai che, oltre alla differenza abissale dell’età, io avevo già trovato una ragazza, anche se era da poco tempo che stavamo assieme. Lei sembrò comprendere, ma il suo volto non cambiò mai espressione, rimanendo sempre serio. Forse era solo cupo.
Non la vidi più per un po’ di tempo, dopo quel giorno. Temevo che si fosse allontanata da me perché l’avevo considerata troppo piccola. In realtà nei suoi occhi c’era qualcosa di diverso, che la rendeva più matura della sua età.
Poi, una notte, mesi dopo quell’incontro, feci uno strano sogno.
Lei era ai piedi di un grande albero, appoggiata con la schiena al tronco, un vestito leggero, attillato, corto e sbracciato, color cremisi, una giacchetta blu sopra l’abito, delle calze bianche che coprivano le gambe fino a metà coscia e delle scarpette rosa. Teneva una borsetta sottobraccio. Aspettava me e io la stavo raggiungendo. Aveva i capelli tagliati corti, ed era di almeno dieci anni più grande. Io invece avevo ancora la mia età attuale.
Mi svegliai nel momento in cui la raggiunsi e riuscii a guardarla negli occhi, scoprendola innamorata come non mai di quella figura che l’aveva raggiunta e le aveva sfiorato una mano per stringerla nella sua.
Mi ritrovai nel letto a una piazza e mezzo, sudato, nonostante la stagione fredda e il riscaldamento spento.
Kanae quella notte dormiva dai suoi genitori, che era andata a trovare il giorno prima e sarebbe rimasta da loro una settimana circa.
Mi alzai e andai a bere un bicchiere d’acqua, poi tornai a letto e cercai di riprendere sonno.
Il mattino seguente, alle sei in punto, il letto era nuovamente in ordine e io stavo già prendendo servizio sul pullman.
Finalmente, quel giorno, rividi la piccola Aiko che tornava a trovarmi. O almeno questo pensai. Ma quando salì sul mezzo, non mi guardò nemmeno, passando oltre, sedendosi a un posto vuoto e guardando fuori dal finestrino.
Indifferente. Come se non mi conoscesse o non avesse voglia di fermarsi a parlare con me.
Il suo comportamento mi parve strano. Era una bambina infondo, non poteva comportarsi come un’adulta.
Di solito, gli adulti difficilmente perdonano, tengono di più al loro orgoglio e sorridono di rado a chi li pianta in asso.
Ma lei, così piccola e innocente, così delicata e pura, mi sembrava troppo ingenua per essere così diabolica.
No, non era Aiko. Oppure, era davvero lei, la parte nascosta del suo cuore, che io non conoscevo ancora.
Fatto sta che non la fermai quando venne il momento per lei di scendere e la guardai allontanarsi. Non si voltò dalla mia parte nemmeno una volta.
Non capivo. Ero attonito. Cos’aveva Aiko? Oppure ero io che non ci stavo più con la testa?
La lasciai alle spalle del pullman, sperando che presto quel periodo terminasse.
Non la vidi più salire sul mio mezzo fino all’anno successivo, durante un temporale.
Aveva due codini ai lati del viso. Teneva per mano un ragazzino, probabilmente della sua età e sorrideva con lui accanto. Non faticai a riconoscerla benché non la vedevo da un intero anno. Era carina, molto più di prima.
Portava un cappotto lungo e delle calze bianche. Stivaletti neri fino alla caviglia.
Il ragazzo che era con lei, scese dopo poche fermate.
- A domani, allora. – le disse.
- Si, certo, a domani! – rispose lei, sorridendo.
La guardai con quel volto luminoso, felice. Provai una morsa al cuore, ma non potevo essere geloso di una bambina. Sorrisi quindi e dentro me cercai di non pensarci più. Tutti i passeggeri scesero uno dopo l’altro. Ancora due fermate e sarei arrivato al capolinea della città. Perché Aiko non scendeva? Non abitava da quelle parti e lo sapevo bene.
Andava a trovare un’amica? Andava a fare spese nel centro di Nagano? Non lo potevo sapere, ma più mi dissi che non erano affari miei, più non riuscivo a non pensarci. Ero arrivato alla penultima fermata di pullman. Nessuno doveva scendere, poiché era rimasta solo lei. A quel punto, dal posto dove era seduta, mi guardò, incrociando il mio sguardo.
La osservai con stupore interiore e, quando decisi di aprire bocca per domandarle dove sarebbe scesa, un tremendo frastuono si udì provenire dal cielo, mentre un fulmine mi fece andare in corto circuito le luci del pullman.
Mi presi un colpo e, uno ancora più grande, quando Aiko gridò dal posto in cui era seduta, portandosi le mani alle orecchie e la testa tra le braccia, impaurita e tremolante.
Ormai eravamo nel pieno della tempesta e, con tutti i tentativi di rimettere in funzione il mezzo, non c’era niente che potessi fare. Scesi così dal posto guida e mi avvicinai a lei, sedendomi al suo fianco. Lei non mi guardò nemmeno, con il volto coperto tra le braccia e le mani sulle orecchie, si avvicinò a me poggiandomi la testa sul petto.
Il cuore prese a battermi forte e la strinsi tra le braccia, per proteggerla dalle sue paure.
Quando la tempesta si placò, un’ora più tardi, la allontanai dal mio petto e vidi che si era addormentata.
Non la svegliai, ma la adagiai sul sedile in modo che fosse comoda e tornai al posto guida. Tentai nuovamente più volte di riaccendere il mezzo e, alla fine, quando ormai avevo perso le speranze, finalmente ripartì e potei continuare il giro sul pullman per la città. Quando ci trovammo a due fermate prima di casa sua, Aiko si svegliò, si alzò e si diresse all’uscita. Il pullman era ancora vuoto, dopo la tempesta e, le poche persone che erano salite, erano scese in breve tempo. Prima di andarsene, però, sentii chiaramente la sua voce.
- Grazie. – disse, poi scese dal pullman.
Non risposi, ritrovandomi senza parole. Mi girai di scatto a guardarla, ma lei non si voltò mai verso di me.
Me l’ero forse immaginato? Oppure stavo sognando a occhi aperti?
Aiko mi aveva parlato, ne ero certo. Mi aveva ringraziato e solo allora mi tornò alla mente il sogno che avevo fatto quella notte. Il suo volto maturo e felice. Ma come poteva c’entrare?
Non riuscii a spiegarmelo. Pensai così di lasciar perdere ogni cosa. Se lei avesse voluto parlarmi ancora, l’avrei accolta volentieri, altrimenti pazienza.


...Continua...


[Modificato da =Ereandil= 09/11/2006 14.14]

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05/11/2006 10:38



Parte seconda



Circa cinque mesi più tardi, un altro sogno mi perseguitò. Nuovamente Aiko, con la stessa pettinatura, lo stesso abito succinto, la stessa età adulta e lo stesso sorriso gentile.
Passeggiavamo sulla spiaggia, mano nella mano. Mi sentivo realmente innamorato di lei e nei suoi occhi vedevo lo stesso amore riflettersi. Mi sembrava incredibile. Quando le chiesi di sposarmi, al tramonto, in riva al mare, non riuscii a conoscere la sua risposta, che di soprassalto un trambusto mi svegliò.
Accesi la luce, sedendo sul letto, ancora avvolto dalla mia parte di coperte. Kanae non era al mio fianco. Il cuscino era incavato della forma della sua testa e il lenzuolo sgualcito, ma lei non c’era. Poi, una voce udii provenire dalla cucina.
- Scusa, amore, ti ho svegliato? – chiese.
- Kanae sei tu? No, non mi hai svegliato. – mentii. – Ma dimmi, perché sei in cucina a quest’ora? – non sapevo in realtà che ore fossero, così guardai la sveglia sul comodino affianco. Erano le 3.30 del mattino.
- Scusa amore, non riuscivo a dormire, avevo una gran sete. Ma non ho voluto accendere la luce per non svegliarti, così sono inciampata sul filo penzolante della presa del telefono e l’ho fatto cadere. – rispose.
- Fa niente. Torna a dormire, dai. – la confortai. Non utilizzavo mai il telefono. Era una cosa che apparteneva a Kanae per sentire i suoi genitori e le amiche più che altro.
- Va bene. – rispose solamente, poi non sentii più nulla e mi riaddormentai senza sognare altro.
Fu un altro giorno di tempesta, come era accaduto cinque mesi prima. Ma per tutto il giorno, non ci fu traccia di Aiko sul pullman e non capitò nessun incidente che mi inchiodò con il mezzo nel pieno della tempesta.
Accadde però il giorno seguente. Non ero in servizio sul pullman, era il mio giorno libero e lei stava chiaramente marinando la scuola. Aveva una nuova divisa. Capii che era passata in prima media. Il colore blu notte della divisa le donava molto. La vidi che entrava in una pasticceria con due amiche al suo fianco un po’ più in carne di lei.
Sorridevano tranquille. Aiko era dolce come suo solito, con quegli occhi grandi ed espressivi. I capelli sciolti arrivavano alle scapole e sulla nuca teneva un cerchietto colorato, con un fiocco da una parte.
Era femminile e aggraziata. Continuai a camminare per la mia strada, dopo averla vista, cercando di non fissarla troppo a lungo per non essere scambiato per maniaco.
Entrai in un negozio di strumenti musicali. A quel tempo, mi esercitavo da solo a suonare il jazz con la chitarra elettrica, regalo di mio padre di quando presi il diploma. Sapeva quanto amavo la musica.
Ignaro del fatto che in quel momento qualcuno mi stava spiando dalla vetrina di un altro negozio, mi rifornii di spartiti di musica jazz, il mio genere, e tornai a casa, pronto a esercitarmi come facevo ogni volta che non dovevo lavorare.
Kanae detestava la musica jazz, quindi ne approfittavo quando non era a casa. Ma quel giorno, Kanae non si trovava nemmeno al lavoro, bensì, in una stanza di albergo con un ragazzo di cui ignoravo l’esistenza.
Ormai la nostra storia era diventata platonica. Dicevamo di amarci solo a parole, ma nessuno dei due provava dei veri sentimenti l’uno per l’altra e ho capito che molto probabilmente, non l’avevo mai realmente amata con il cuore, ma mi ero solo fatto un’idea dell’amore per lei, un’idea che non corrispondeva alla realtà.
Così, quando mi rivelò, un mese più tardi, di avere una relazione con un altro e di essersi innamorata di lui seriamente, non ci restai nemmeno così male. Infondo, non potevo legarla a me, se non era quello che volevo davvero. Anche se il suo abbandono mi dispiacque parecchio. Forse era solo un motivo di compagnia per me.
Lascia che il tempo, quindi scivolasse via e con esso, tutti i ricordi del nostro periodo assieme.

Passarono dieci lunghi anni. Dopo aver provato a suonare in diversi locali notturni la mia musica jazz, sei anni prima, fui notato da alcuni amici di un noto produttore nel campo della musica nipponica. Mi chiamarono per combinare un incontro dunque e nel giro di breve periodo, avevo già un contratto. Poi, il mio successo si allargò, tanto da divenire uno dei primi giapponesi conosciuti in tutto il mondo per la sua meravigliosa musica jazz.
Ero ormai pieno di fan e ricercato da milioni di case discografiche. Ma il successo mi aveva fatto perdere i valori morali a cui avevo sempre tenuto tanto. Ovviamente non feci più l’autista di pullman e, quando il successo cominciò ad arrivare, sei anni prima, lasciai anche Nagano per vivere in città come New York e Nord Carolina, le città del jazz.
Però, Sapporo mi mancava. Mi presi così un periodo di relax e tornai dai miei genitori dopo averli sentiti al telefono per sei anni e averli visti solo in qualche mio concerto live dalle tribune. Li avevo salutati con la mano, felice di rivederli, ma non era certo così bello come poterli riabbracciare e parlare con loro in tranquillità.
Eppure, anche se mi trovavo a Sapporo, c’era un volto che non riuscivo a dimenticare. Quello di Aiko.
La sognai mille volte a New York e nelle città straniere dove mi trovai a girare sperduto.
Eppure, al mio risveglio, il giorno seguente, non la rividi più.
Decisi così di tornare a Nagano per una visita veloce della città e per ricordarmi dei tempi passati.
Quando mi ritrovai a ripercorrere quei luoghi, qualcosa era cambiato visibilmente, ma c’erano vivi ad aspettarmi ancora tutti i momenti che avevo vissuto anni prima e che ora tornavano alla mente.
Aiko soprattutto. E, mentre vagavo nel centro della città, un tabellone gigante mostrava la foto di una rivista di musica jazz e in copertina una ragazza, vestita con un abito corto, color cremisi, un soprabito blu slacciato, e delle calze bianche che arrivavano fino alla parte alta delle gambe. Portava i capelli corti e vantava di due occhi grandi ed espressivi.
Era esattamente come Aiko appariva nei miei sogni. Quella ragazza sulla copertina era lei.
Aveva ormai vent’anni, ed era fresca come una rosa appena fiorita. Bella e graziosa come lo era sempre stata.
Anche se io avevo ormai trentacinque anni, non mi importava più di quanto fosse differente la nostra età, poiché avevo capito di essere innamorato da anni di quel giovane angelo senza ali.
Entrai in un negozio di giornali e comprai la rivista che avevo appena vista pubblicizzata, per vedere se dava informazioni sulla modella in copertina. Fortunatamente sì, anche se non erano molte.
Si faceva chiamare Ai-chan, aveva vent’anni compiuti da pochi mesi, gruppo sanguigno B positivo, occhi nocciola e capelli neri, altezza sul metro e settanta, peso di cinquantasei chili. Una modella perfetta.
Inoltre, era scritto che il mese successivo, avrebbe posato per un altro servizio fotografico a Tokyo, in un parco piuttosto conosciuto anche per chi non era del posto.
Ci andai, il mese seguente. Mi presentai in anticipo di due ore, ma già era pieno di attrezzature apposite per il servizio fotografico. Restai quindi in disparte in attesa.
Circa un’ora dopo, Aiko si fece vedere da tutti i fan che avevano nel frattempo assediato il luogo.
Si tenne così il servizio fotografico che durò tre ore e mezza. Quelle foto sarebbero servite per diverse altre riviste, tra quelle di moda e quelle di musica jazz a cui si dedicava regolarmente. E questo mi incuriosiva non poco.
Al termine del servizio, mi avvicinai alla manager di Aiko, la signora Kanzaki e le chiesi di potermi lasciare la sua preziosa modella per un po’ di tempo, essendo un suo amico di vecchia data. Fece un po’ di storie, ma quando le rivelai la mia identità mediante biglietto da visita, si addolcì di colpo e mi permise mezz’ora per incontrare Aiko.
Ecco, dunque, che lei arrivò poco dopo alla panchina dove mi ero seduto.
- Ciao. Mi hanno detto che mi cercavi. Non ho molto tempo. Vuoi un autografo? – chiese, frettolosa, ma cordiale.
- Ciao. Niente autografo, grazie. Siediti pure, non ti mangio. – le sorrisi.
- Come? Ma.. non ho molto tempo. L’ho appena detto. – ribadì alla mia proposta.
- Come vuoi. – mi alzai in piedi e la fissai dritto negli occhi. – Arriviamo al dunque.
- Sì.. certo… - mi guardò, imbarazzata.
- Mi piaci, Aiko. Perdonami se te lo dico così. So che ormai è tardi. Ma anche io l’ho capito tardi.
- Che….che cosa? – chiese, incredula e imbarazzata, col volto rosso e gli occhi ancor più grandi.
- Ti ricordi di me, vero, Aiko? – domandai, con un sorriso malizioso.
- No… non direi… - rispose e parve sincera.
- D’accordo. Allora non ti importunerò più. E’ stato bello rivederti. Sei esattamente come ti ho sognata.
La guardai con ammirazione e lei parve proprio non capire il mio discorso. Le sfiorai una guancia con il dorso della mano, in una carezza lieve. Era morbida. Sembrava di velluto. Respinsi il forte desiderio di abbracciarla e stringerla al mio petto, quindi mi allontanai da lei, incamminandomi senza voltarmi a guardarla.
- Aspetta! – urlò alle mie spalle e io fermai il passo.
- Come dici? – chiesi, voltandomi piano fino ad incrociare il suo sguardo.
- Non andartene… - sussurrò appena.
- Perché? Ti sei forse ricordata qualcosa? – sorrisi, malizioso.
- Veramente…. Sì… - abbassò la testa, come quella volta che si dichiarò sul pullman, undici anni prima.
- Dimmi, allora. Ti ascolto. – la osservai con serenità, pensando che fosse bellissima.
- Mi sono ricordata che… - si arrestò un attimo, per poi prendere coraggio e continuare. – Mi sono ricordata una cosa importante, Akio. – rivelò il mio nome e mi fece intendere di non avermi dimenticato.
- Che cosa? – chiesi, a quel punto, con voce strozzata, pronto a correrle incontro.
- Che non ho mai smesso di amarti. E’ così. Ti amo, Akio. Ti amo tanto! – la vidi piangere, mentre urlò quelle parole così dolci e così belle.
Corsi verso di lei e l’abbracciai forte, tenendola stretta mentre singhiozzava e ripeteva tra le lacrime che mi amava da anni e in modo così profondo che a volte le mancava il respiro. Io l’accarezzavo e le sussurravo anch’io, anch’io, mentre i nostri cuori si erano finalmente trovati.
Diventò la mia ragazza, ed ero fiero di lei. La presentai a tutti, amici, genitori, parenti e fan.
Su ogni giornale scandalistico, apparivamo noi, innamorati pazzi, in copertina.
Lei mi raccontò di quella volta, da bambina, che mi vide entrare in un negozio di articoli musicali a Nagano e così le venne l’idea di diventare la modella per le riviste di musica, per diventare un minimo conosciuta e per fare colpo su di me che, in futuro magari, avrei potuto accorgermi di lei e rintracciarla. Compresi che non aveva mai perso la speranza e che non voleva separarsi da me, dal mio mondo. Mi aveva portato nel cuore per tutti quegli anni e mi rivelò che il suo successo lo doveva solo a me.
Io le raccontai dei sogni che avevo fatto di lei, in età adulta, quando ancora era una bambina, dopo che si era dichiarata.
Le dissi che era identica a come ora appariva dinanzi a me e che nei miei sogni l’amavo come l’amo oggi.
Lei non mi credeva. E’ comprensibile, visto che a raccontarlo, facevo fatica a crederci persino io.
Eppure, due anni dopo, al tramonto sulla spiaggia, le chiesi di sposarmi. Ma questa volta nessuno poteva svegliarmi, perché non stavo sognando e lei mi avrebbe finalmente risposto.
- Sì, Akio. – disse, mentre una lacrima le rigava il volto e le illuminava i grandi occhi pieni d’amore che riflettevano la stessa passione dei miei. E lì, uno vicino all’altra, ci baciammo come due adolescenti che ardono d’amore.


FINE








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