Il musical di Mozart

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sintakil
00lunedì 2 luglio 2007 11:50
Dopo Shakespeare, Wolfgang Amadeus Mozart. Kenneth Branagh ha una teoria che ancora nessuno è riuscito a smentire: il teatro e l’opera nei suoi film funziona. Cimentandosi con Il flauto magico (debuttò a Vienna nel 1791), opera di anomala suggestione, misteriosa e soprannaturale, ne ha ricavato anche un inno pacifista e laico, panteista e umanista. Del libretto originale (scritto in tedesco da Schikaneder per essere più popular, non in italiano come era l’usanza a Corte) Stephen Fry ha ricavato una versione in inglese. Anche perché la Fondazione Peter Moores, che produce, è nata con lo scopo di diffondere l’opera cantata in inglese, piuttosto che in italiano o tedesco. La tormentata storia d’amore tra Pamina (Amy Carson) e Tamino (Joseph Kaiser) è stata trasportata all’inizio del secolo scorso, tra trincee affollate di soldati e castelli da favola. La madre di lei, la Regina della notte (Lyubov Petrova), come Mozart e il librettista volevano, è un’ambigua consigliera che a metà strada si rivela per quello che è. E Sarastro (Renè Pape), che la fronteggia in guerra (l’aveva scaricata e lei si vendica?) poteva sembrare cattivo e invece… Tamino è aiutato dal pasticcione Papageno (Benjamin Jay Davis), che alleva uccelli e sta cercando una “passerotta per il suo talamo”. E poi le tre dame, che salvano il protagonista dalla morte con un secondo fine e i tre ragazzi messaggeri di prove e strumenti magici.



Con grande dispendio di effetti speciali e un cast tutto all’altezza, Kenneth Branagh ha orchestrato uno spettacolo coloratissimo e turbolento girato negli Shepperton Studios di Londra. Facendone “il musical di Mozart”, con un romanticismo così di maniera e kitsch da risultare stemperato e ironico. Non ci sono più carrucole e effetti artigianali come in un teatro viennese di fine secolo ma trincee scavate per miglia, campi di battaglia devastati che ritornano verdi pascoli, gas letali che prendono la forma di un serpente, colline ricoperte di bianche lapidi a perdita d’occhio. Visivamente accattivante, con la mdp volatile, mobilissima, capace di evoluzioni a volo d’ uccello. La guerra, condannata a più riprese, mantiene però il fascino delle grandi coreografie e allo stesso tempo dell’epopea di vita. Se non fosse per la durata (2 ore e 20, come prevede l’opera) lo spettacolo di luci e ombre non perde praticamente di ritmo, alternando eros e pathos, cattiveria ed eroismo. Tutte emozioni a due dimensioni per spettatori che devono fare due sforzi: mettere da parte lo scetticismo e preparare l’orecchio ad un racconto solo cantato


www.unita.it
T@li@
00lunedì 2 luglio 2007 12:18
Wowwwwww!!!
Vedere vedere!! io vedere!!! [SM=x132425]
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